Antropologia culturale: Alla base del conflitto etnico in Ruanda

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Il colonialismo ha piantato i germi delle guerre che avrebbero infettato diverse zone dell’Africa nel secolo scorso e le cui conseguenze ancora oggi vivono quelle popolazioni.

Un esempio per tutti è stato il conflitto etnico tra Hutu e Tutsi in Ruanda, le cui origini risalgono alla gestione coloniale sconsiderata di tedeschi e, soprattutto, belgi.

Il genocidio in Ruanda fu uno dei più sanguinosi  episodi della storia del XX secolo, datato 1994, ma la sua origine viene da lontano. Vediamo come.

In Ruanda vigeva, sino all’arrivo degli europei nella seconda metà dell’Ottocento, un sistema politico elaborato, fondato sulla complementarietà di tre gruppi: pastori, agricoltori e cacciatori-raccogliori. I pastori, che erano secondi per numero, erano in prevalenza Tutsi; gli agricoltori, che erano la maggioranza della popolazione, erano Hutu, mentre i cacciatori-raccoglitori, minoritari in senso assoluto, erano pigmei Twa.

Quando i Tutsi giunsero nell’attuale Ruanda, vi trovarono gli agricoltori Hutu con i quali stabilirono un pacifico accordo: ai Tutsi sarebbero spettati compiti politici, mentre agli Hutu sarebbero spettati i compiti rituali.

Quando i colonizzatori europei s’impadronirono della regione abolirono, oltre alla monarchia Tutsi, anche il ruolo rituale degli Hutu, ma dal momento che erano alla ricerca di interlocutori politici, si rivolsero ai Tutsi, instaurando con loro un rapporto esclusivo, giustificandolo su basi etniche, anche se di fatto inesistenti.

I colonizzatori belgi fecero anche di peggio: nel 1930 idearono un censimento allo scopo di rilasciare delle carte d’identità, dove doveva comparire l’etnia di appartenenza. Siccome gli elementi razziali su cui basare questa distinzione erano molto debiti, poiché nel corso del tempo Hutu e Tutsi, che vivevano in pace, si erano mescolati, sapete cosa escogitarono i colonizzatori belgi? Gli addetti ai questionari adottarono il criterio del possesso di bestiame; siccome i Tutsi erano originariamente pastori, decisero che gli uomini adulti con dieci o più buoi erano Tutsi, mentre quelli che ne possedevano meno di dieci erano Hutu. Non si trattava però solo di una formalità perché il nome di Tutsi o Hutu poteva determinare il diritto di accesso, o meno, all’istruzione e a ogni altro privilegio concesso dai colonizzatori ai Tutsi.

I colonizzatori belgi affidarono ai Tutsi, identificati sulla base della maggiore quantità di bestiame posseduto, posti e incarichi nell’amministrazione assicurando loro vantaggi economici, mentre gli Hutu rimasero tagliati fuori  e quindi esclusi dalla formazione dello Stato coloniale e postcoloniale.

Gli Hutu, identificati sulla base della minore quantità di bestiame posseduto, non poterono svolgere più le loro tradizionali funzioni rituali e si ritrovarono così ad essere una semplice massa di contadini sfruttati dai dominatori Tutsi.

Questa situazione si protrasse sino alla fine degli anni Cinquanta quando, con l’indipendenza, venne instaurata una repubblica controllata per motivi numerici dagli Hutu.

I semi dell’odio erano però già stati gettati  e la presa del potere da parte degli Hutu segnò l’inizio di un periodo di violenza intermittente culminato con le stragi degli anni Novanta.

I documenti d’identità dove era indicata l’etnia, pensati e messi in pratica dagli ex colonizzatori belgi, sono così diventati il mezzo con cui le milizie di uno e dell’altro fronte potevano sapere chi risparmiare e chi no.

Fu così che la mano scriteriata del colonialismo finì per generare il mostro.

Cinzia Malaguti

Bibliografia: U. Fabietti, Elementi di antropologia culturale, Mondadori Università, Milano, 2010

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